sabato 12 giugno 2010

ENERGIA NUCLEARE

Le centrali sono più sicure che in passato. Ma rimane aperta la questione delle scorie. A oggi nessun paese del mondo sa ancora come conservarle in assoluta sicurezza

 L'Italia passerà al nucleare? Da quando, lo scorso 22 maggio, il ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola ha reso ufficiale le intenzioni del Governo, il ritorno all'energia dell'atomo sembra scontato e imminente. Ci sarebbero addirittura le date e un piano in arrivo che porterà la firma dell'Enel: entro il 2020 potremmo avere quattro centrali funzionanti e un sito di stoccaggio per le scorie. A oggi, infatti, non esiste (né si prospetta) un nucleare che non produca rifiuti radioattivi, per i quali nessun paese al mondo ha ancora trovato una soluzione definitiva.

Oltre che in Francia, il riprocessamento attualmente si fa in Gran Bretagna, Giappone e Russia. Come Frank N. von Hippel, fisico nucleare e docente di Pubbliche relazioni e rapporti internazionali del Princeton University's Program on Science and Global Security, spiega in un articolo su Scientific American, il MOx, una volta irradiato nelle centrali, contiene ancora circa il 70 per cento di plutonio di partenza. Ma l'aggiunta degli altri prodotti della seconda fissione cui è sottoposto, lo rende difficilmente accessibile per una seconda estrazione (ovvero per un secondo riprocessamento). Secondo Hippel, Francia, Gran Bretagna, Giappone e Russia, in realtà hanno solo spostato il problema dello stoccaggio delle scorie dal sito del reattore a quello dell'impianto di riprocessamento. Tanto che stanno pensando di chiudere le strutture.

La ricerca di base intanto, compresa quella italiana, sta cercando di sviluppare reattori che possano utilizzare, come combustibile, elementi poco radioattivi, nonché le stesse scorie accumulate negli anni, restituendo poi rifiuti in quantità minore e meno tossici. “Si tratta delle centrali di quarta generazione, basate su concetti che sono ancora in parte da sviluppare, ma di cui potremmo avere una prima dimostrazione già nel 2030”, spiega Graziano Fortuna, fisico e membro della giunta per la ricerca dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn): “Un tempo ovviamente troppo lungo se si vuole l'energia nucleare nel prossimo ventennio”.

In pratica si cerca di passare dai reattori a neutroni termici (prima, seconda e terza generazione) a quelli a neutroni veloci (quarta generazione), in grado cioè di spezzare in modo efficiente elementi che siano molto meno tossici di uranio e plutonio: “Se, per esempio, riuscissimo a utilizzare soltanto il torio (come proposto dal Nobel Carlo Rubbia, ndr.) al posto dell'uranio e del plutonio”, continua Fortuna, “la fissione non porterebbe alla formazione di plutonio 239 e 240, né di curio, nettunio o americio, i composti maggiormente radioattivi prodotti dalle attuali centrali. Ma questo non è certo realizzabile nel giro di qualche anno”.

I reattori di terza generazione più comuni possono utilizzare sia uranio 238 arricchito in uranio 235, sia MOx. Per un gigawatt di potenza erogata in un anno, producono 125 chilogrammi di plutonio, più i già citati curio, nettunio e americio, che rappresentano circa il dieci per cento delle scorie. Molti di questi rimangano radioattivi anche per centinaia migliaia di anni (centomila il plutonio 239, oltre seimila il plutonio 240). “Ancora non si prevede”, fanno sapere dall’Enel, “l'utilizzo del ciclo uranio 233-torio: solo in India si sta progettando questo ciclo del combustibile, date le sue notevoli riserve di torio”. Insomma, un nucleare che non abbia conseguenze per le prossime quattromila generazioni è ancora lontano.